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Un numero sempre maggiore di persone si dedica al volontariato: una predisposizione innata, perché l’altruismo regala vantaggi psicologici e anche fisici
Se è vero, come diceva Sofocle, che «l’opera umana più bella è di essere utile al prossimo», abbiamo almeno tre buone ragioni per tendere la mano a chi è in difficoltà.
La prima è quella sensazione unica e speciale che deriva dall’aver reso la vita di qualcun altro in qualche modo migliore. Un mix di appagamento, gratificazione e piacere prossimo alla felicità. Lo diceva anche Fabrizio De André: «la felicità non nasce dalla ricchezza né dal potere, ma dal piacere di donare». La seconda ragione è che aiutare gli altri fa bene alla salute. Non è un modo di dire: l’ultimo rapporto su salute e felicità, presentato da CEIS Tor Vergata-Fondazione Angelini, dimostra, numeri alla mano, che esistono precisi canali biologici attraverso i quali le buone azioni si convertono in benefici concreti per il fisico. Se ciò non bastasse, c’è la terza motivazione: gli animi buoni e gentili sono più attraenti agli occhi degli altri. E hanno vita più facile in amore.
L’opera di Dante insegna: gli spiriti nobili, pronti a donarsi senza riserve, sono quelli che fanno breccia più facilmente. Anche ricercatori inglesi dell’Università di Nottingham, interrogando le donne sui requisiti ideali di un partner, hanno concluso che il gentil sesso è più attratto dagli uomini generosi e altruisti, forse perché se li immaginano come mariti premurosi e padri in grado di accudire i figli.
Quasi sette milioni di italiani conoscono i vantaggi della generosità disinteressata e appena possono (almeno una volta al mese) si dedicano ad attività di volontariato (vedi a pagina 50). In pratica, un italiano su otto è disposto a guidare ambulanze, spingere carrozzelle o servire pasti senza chiedere nulla in cambio, per un totale di 126 milioni di ore mensili regalate a chi ne ha bisogno. La sensibilità è elevata anche tra i più giovani, notoriamente accusati di egocentrismo e di scarso interesse verso il prossimo. Secondo un sondaggio nazionale dell’Avis effettuato su duemila studenti che frequentano la terza media, il 66% degli adolescenti italiani ritiene la donazione di sangue un gesto di alto valore. E nove su dieci lo definiscono un segno di altruismo e di solidarietà.
Si abbassa lo stress.
Come si spiegano questi numeri? «Ormai sappiamo che il benessere non deriva solo dall’assenza di malattie, ma è la somma di più dimensioni: oltre a quella fisica, contano molto i fattori psicologici, emozionali e sociali. Aiutare qualcuno dà una scarica di autostima, che gratifica e abbatte le emozioni negative», spiega Sandro Stanzani, professore associato di sociologia dei processi culturali e comunicativi del Dipartimento tempo, spazio, immagine, società dell’Università di Verona e membro del seminario permanente di studi sul volontariato. L’ha dimostrato un gruppo di ricercatori dell’Università di Sussex, dopo aver constatato che, dopo nove giorni di azioni positive, uomini e donne manifestavano livelli più bassi di stress.
Non solo. Uno studio condotto in 19 Paesi europei mostra che l’attività di volontariato, la partecipazione attiva alla vita di comunità e la cura dei propri cari contribuiscono ad «allenare» le funzioni mentali e fisiche e a irrobustire il «capitale psicologico» necessario per far fronte alle sfide dell’età, consentendo di resistere meglio allo stress dell’invecchiamento ed evitando di cadere nella depressione o nell’isolamento. I benefici più evidenti? Dimezzato il rischio di tumori, migliorati il sonno e la memoria. Le energie mentali e il senso di soddisfazione derivanti dal rendersi utili si ripercuotono positivamente anche sul sistema immunitario e cardiovascolare.
«Alcuni studi hanno verificato che l’altruismo è funzionale alla sopravvivenza della specie, mentre comportamenti egoistici frenano l’evoluzione dell’umanità e la privano della speranza di un futuro migliore», conferma Alessandra Gorini, psicologa e ricercatrice del Dipartimento di scienze della salute e Centro di ricerca e intervento sui processi decisionali dell’Università degli Studi di Milano.
Un'esperienza che cambia la vita.
«Nei testi di scienze sociali l’altruista è definito come colui che “si sacrifica” in favore di qualcun altro, dando a questa parola un’accezione negativa, di privazione», sottolinea Stanzani. «Ma la pratica smentisce questa definizione: chiedendo a un gruppo di volontari se il servizio prestato si traduce per loro in un arricchimento o in una perdita (di tempo, in primis), tutti rispondono di avvertire sempre la sensazione di aver ricevuto più di quello che hanno dato». Lo confermano i dati diffusi dall’Istat: soltanto un volontario su venti afferma che l’esperienza non ha portato nulla di buono e nella sua vita non è cambiato niente. Quasi la metà afferma invece che grazie a quest’avventura oggi si sente meglio con se stesso e ha abbracciato un nuovo modo di vedere la vita.
Il Circolo virtuoso della bontà.
Per spiegare questa sensazione di pienezza e gratificazione, scienziati francesi hanno compiuto un esperimento sociale. Immaginando il dialogo tra due individui in procinto di decidere chi deve lavare i piatti della cena, hanno identificato tre possibili comportamenti: equilibrio tra debito e credito (quando uno dice: «Stasera li lavo io, perché ieri li hai lavati tu» e l’altro è d’accordo), atteggiamento di debito continuo verso il prossimo (quando entrambi vogliono lavare i piatti per alleviare la fatica dell’altro) oppure di credito (quando entrambi si rifiutano, perché sostengono di aver già dato abbastanza). «Ciò dimostra che il beneficio (o, al contrario, la sensazione di perdita e sacrifico) che si trae da un’azione altruistica deriva dal valore intrinseco che ciascuno di noi attribuisce alla relazione con il prossimo», continua Stanzani. «Se non si dà valore al dono, l’investimento di tempo ed energie viene vissuto con fatica, come una sottrazione, e l’azione buona non regala nulla né a chi la offre né a chi la riceve. Se invece il rendersi utili agli altri è un atto spontaneo, desiderato, si innesca un “circuito del dono” che si autoalimenta e genera continuo benessere».
È dunque vero che, una volta iniziato, non si riesce più a smettere. Alle università dell’Oregon e Atlanta (Usa) hanno visto, attraverso la risonanza magnetica funzionale, che nel momento in cui si mette in pratica un’azione benefica, si attivano le aree del cervello legate al cosiddetto meccanismo della ricompensa, che riconosce le esperienze che danno piacere e spinge a riproporle. Alle stesse conclusioni è arrivato uno studio condotto in California su 39 adolescenti: sempre utilizzando la risonanza, si è constatato che quelli che decidevano di donare parte delle loro paghette ad altri mostravano un calo dei sintomi depressivi. Quelli che invece sceglievano di tenere tutto per sé apparivano nel tempo meno felici e gratificati.
Generosità innata.
Ma altruisti si nasce o si diventa? Secondo lo psicologo americano Michael Tommasello, ci sono varie ragioni scientifiche a supporto dell’idea che si tratti di un comportamento innato. Nel suo libro Altruisti nati, ne elenca cinque, tra i quali l’elevata predisposizione dei bambini molto piccoli (tra 14 e 18 mesi di vita) ad aiutare gli sconosciuti, offrendo il ciuccio o tendendo una manina a chi appare triste o in difficoltà. Un’altra ricerca, condotta su circa 150 bambini di tre e quattro anni, ha dimostrato che i piccoli sono disposti a regalare i loro beni a prescindere dal sesso, dall’educazione ricevuta, dalla cultura di appartenenza, senza sapere a chi sarebbero destinati. Esiste dunque un’inclinazione naturale a fare del bene, che nel tempo però viene influenzata dall’ambiente familiare, scolastico, sociale. La fede c’entra poco: secondo una ricerca canadese, i non credenti mostrano gli stessi livelli di generosità dei devoti.
Allora dipende dalla genetica? In parte sì. «È recente la scoperta di un gene, definito proprio “gene dell’altruismo”, attivo nella maggioranza di noi, che nel momento in cui si compie un’azione benefica causa il rilascio di neurotrasmettitori cerebrali simili alla dopamina, la sostanza che entra in circolo quando si riceve una ricompensa e si è contenti di averla ottenuta»; spiega Gorini. «Questo confermerebbe l’idea che l’altruismo autentico è mosso da motivazioni interiori e innate e dalla ricerca di una ricompensa invisibile, sotto forma di sorrisi, gratitudine, calore umano, che arriva dritto al cuore». È ancora Tommasello ad avvalorare questa tesi. «Dividendo i bambini che avevano compiuto buone azioni in due gruppi, lo scienziato ha verificato come quelli che erano stati premiati con caramelle o giochi per essersi comportati bene non hanno ripetuto lo stesso comportamento in seguito, mentre quelli rimasti senza ricompensa hanno continuato ad aiutare il prossimo», racconta Stanzani. Conclude Gorini: «La bontà autentica ha requisiti precisi: è disinteressata, non viene mai esibita e soprattutto è capace di procurare piacere e soddisfazione in chi lo fa». Ma cosa si può fare per diventare più generosi? «A mio avviso», risponde Stanzani, «la “molla” dell’altruismo deve essere la consapevolezza che nessuno di noi può essere autosufficiente e che tutto ciò che possediamo (a partire dalla nostra stessa vita) l’abbiamo ricevuto in dono. Partecipare a una rete sociale di mutuo aiuto è dunque uno dei compiti che siamo chiamati a svolgere».
A cura di Roberta Camisasca,
Fonte e Articolo completo su www.ok-salute.it
Visto su http://www.voce.milano.it
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