«E intritt für Italiener verboten!». Quel famosissimo cartello appiccicato all'entrata d'un ristorante di Saarbrücken, tradotto e rafforzato nella nostra lingua («Proibito "rigorosamente" l'ingresso agli italiani!») perché tutti capissero, è una ferita che sanguina ancora tra i nostri emigrati in Germania. Non sappiamo chi fosse il razzista padrone di quella trattoria. Forse, chissà, era un immigrato danese, russo o polacco arrivato qualche anno prima. Nessuno stupore. Così come non può stupire che il cartello piazzato in una vetrina di Vicenza con scritto «Vietato entrare ai zingari» sia stato messo lì da Fatima Mechal, un'immigrata marocchina. È andata quasi sempre così, nella storia delle emigrazioni: quelli che stavano all'ultimo gradino della scala sociale, appena riescono a salire sul penultimo si voltano e sputano su chi ha preso il loro posto.
Da anni quanti hanno letto un po' di libri sull'emigrazione tentano di spiegare agli xenofobi, che scatenano campagne furenti contro il diritto di voto agli immigrati nella convinzione che sarebbero tutti «voti comunisti», che non è affatto vero che quei voti andrebbero automaticamente alle «sinistre». Anzi, con ogni probabilità le preferenze di chi si è già inserito premierebbero in buona parte chi vuole la chiusura delle frontiere all'ingresso di nuovi immigrati, visti come concorrenti disposti a mettersi sul mercato del lavoro a prezzi stracciati. Niente da fare. Eppure, la stessa storia dei nostri emigrati è piena di testimonianze in questo senso. Ne ricordiamo due. Particolarmente dolorose.
La prima è quella dei sentimenti di calloso razzismo manifestati nei confronti dei nostri nonni, a cavallo fra Ottocento e Novecento, dagli irlandesi che in Australia e negli Stati Uniti ci avevano preceduto nella malinconica casella delle etnie più combattute, odiate, disprezzate dagli abitanti che si ritenevano gli unici padroni «autoctoni» delle terre occupate dai bisnonni. Dice tutto l'ostilità contro ogni manifestazione di cattolicesimo popolare (le processioni con le statue dei santi, le invocazioni urlate, i fuochi artificiali...) visto come primitivo, bigotto, «pagano». C'è una frase di un prete irlandese, Bernard Lynch, che sintetizza un mondo intero di sentimenti. Ridendo di come i nostri emigranti si accatastavano nei «block» newyorkesi di Mulberry Street o Bayard Street (dove il fotografo Jakob Riis contò 1324 italiani ammucchiati in 132 stanze), quel prete arrivò a dire in un rapporto al vescovo: «Gli italiani riescono a stare in uno spazio minore di qualsiasi altro popolo, se si eccettuano, forse, i cinesi». Di più: «Dove l'uomo non potrebbe vivere, secondo le teorie scientifiche, l'italiano si ingrassa.»
Ancora più straziante, e indicativo del rapporto malato fra i penultimi e gli ultimi, è il ricordo di quanto accadde nel 1891 a New Orleans. Dove il sindaco Joseph A. Shakespeare, convinto che gli immigrati italiani e soprattutto siciliani fossero il peggio del peggio («Sono sudici nella persona e nelle abitazioni e le epidemie, qui da noi, scoppiano quasi sempre nei loro quartieri. Sono codardi, privi di qualsiasi senso dell'onore, di sincerità, di orgoglio, di religione e di qualsiasi altra dote atta a fare di un individuo un buon cittadino...») scaricò contro la nostra comunità l'accusa di avere organizzato l'omicidio del capo della polizia, David C. Hennessy.
L'ondata di arresti che seguì alla campagna anti-italiana («La polizia li trascinò in carcere sottoponendoli a un trattamento abbastanza pesante, ma la principale accusa che si poteva muover loro era quella di non saper parlare in inglese», ammise il New York Times che pure era molto duro con i nostri) non riuscì tuttavia a placare l'odio razziale del sindaco e dei razzisti da cui si era circondato.
Dopo l'abolizione della schiavitù, in realtà, spiega nel libro «Vendetta» Richard Gambino, «la manodopera italiana parve un dono di Dio, la soluzione che avrebbe consentito di sostituire tanto i neri quanto i muli. I siciliani lavoravano accontentandosi di bassi salari e, in contrasto con lo scontento dei neri, dimostravano di essere più che soddisfatti dei quattro soldi che riuscivano a raggranellare. E quel che più contava, sottolineavano i piantatori, erano di gran lunga più efficienti come lavoratori e meno turbolenti come individui». Anzi, adattandosi a condizioni di vita bestiali, riconobbe la «Federal Commission for Immigration» (smentendo implicitamente l'accusa che fossero «tutti mafiosi e fannulloni») i nostri nonni erano arrivati a produrre pro capite il 40% di zucchero e di cotone in più.
Fatto sta che il processo, nonostante sembrasse destinato ad annientare gli otto siciliani accusati dell'omicidio, finì con un'assoluzione generale: non c'erano prove. A quel punto, prima che gli accusati fossero rimessi in libertà, il giornale «New Delta» pubblicò un appello: «Tutti i buoni cittadini sono invitati a partecipare a un raduno di massa, sabato 14 marzo alle dieci del mattino, alla Clay Statue, per compiere i passi necessari atti a porre rimedio all'errore giudiziario nel caso Hennessy. Venite e tenetevi pronti ad agire». E ventimila persone (immaginate quanto odio ci vuole per muovere una folla così) diedero l'assalto al carcere della contea per tirar fuori gli italiani assolti e linciarli. Tra i «giustizieri», che trovarono pace secondo Gambino solo dopo l'allineamento dei cadaveri sul marciapiede dove in tanti sfilarono per sputare sui corpi, c'erano diversi neri. Poveracci vittime quotidiane del razzismo che videro in quel linciaggio l'occasione per dimostrare, come dicevamo, di essere «più americani» loro degli ultimi arrivati. Che li avevano sostituiti nei campi di cotone e di canna da zucchero.
Gian Antonio Stella
La versione integrale e originale di questo articolo è presente sul sito
http://www.corriere.it/
1 commento:
Ho postato ieri questo articolo sulla mia bacheca di FB: lo trovo molto istruttivo e mi ispira un paragone con i "nuovi ricchi", ancora piu' beceri dei salottari.
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