di Valentina Valente - 16 Settembre 2011
Il primo record la piccola cittadina pugliese se l'era aggiudicato per le emissioni di gas serra: la centrale a carbone dell'Enel “Federico II”, il primo impianto in Italia per emissioni di gas serra, con i suoi 15 milioni di tonnellate di Co2 l'anno. Oggi uno studio condotto dall'Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Lecce e Pisa presso il reparto di Neonatologia dell'Ospedale “A. Perrino” e della ASL di Brindisi, rivela un altro triste record: quello dei neonati affetti da gravi anomalie congenite.
Tra il 2001 e il 2009, su 7664 neonati, 176 erano affetti da gravi malformazioni. Un dato che supera del 18% quello registrato nel resto d'Europa. Del 67% quello per le anomalie cardiovascolari. Un dato solo parziale, poiché riguardante i neonati, coloro cioè che ce l'hanno fatta a venire alla luce e che non include quindi quelle gravidanze interrotte proprio a causa delle anomalie cardiache complesse che colpiscono i feti prima della nascita. Che sono ben il 50%, secondo il dirigente di neonatologia di Brindisi Enrico Rosati, responsabile dell’Unità semplice di cardiologia fetale e neonatale.
Lo studio inoltre non riporta le cause di tali malformazioni ma è forte il sospetto tra la popolazione che il principale responsabile sia l'inquinamento, ossia quel mix micidiale di sostanze immesse in aria, acqua e sottosuolo dalle numerose industrie chimiche ed elettriche che affollano l'area produttiva della città.
A Brindisi infatti si concentra uno degli agglomerati industriali più invasivi ed inquinanti d'Europa: chimica, energia, carbone, petrolio, gas. Non ci si fa mancare proprio nulla. E poi c'è 'lei', la centrale di Brindisi Sud “Federico II”, con il suo triste primato di centrale a carbone più inquinante d'Italia per emissioni di Co2 e non solo. Ossidi di azoto, ossidi di zolfo, particolato. E poi cloro, arsenico, mercurio, piombo, nichel e cromo: sono solo alcune delle sostanze normalmente vomitate da una centrale a carbone.
Per questo motivo nel 2007 il sindaco Domenico Mennitti aveva dapprima vietato, con un'ordinanza, la coltivazione agricola dei campi limitrofi alla centrale, per poi interdire totalmente la zona a causa dell'elevato tasso di inquinamento dei terreni. Associazioni, comitati, movimenti e singoli cittadini si sono mossi per richiedere alle principali autorità politiche e sanitarie l'avvio di un'indagine epidemiologica per stabilire un'eventuale correlazione tra i veleni emessi dal gigantesco polo chimico-energetico e gli inquietanti dati sanitari emersi.
“Molti di noi hanno visto parenti e amici ammalarsi e morire. Viviamo nella preoccupazione che ciò possa continuare e colpire i nostri figli” - si legge nelle lettera inviata dalla rete Brindisi Bene Comune alle autorità - “Chiediamo quindi che sia rapidamente effettuata una indagine epidemiologica che dovrebbe essere condotta su popolazioni a rischio per la prossimità a fonti di emissione comparandole con popolazioni a minor rischio perché a maggior distanza dalle stesse fonti.
Chiediamo che siano ricercate le principali sostanze tossiche e cancerogene, emesse dai processi produttivi delle diverse attività industriali pericolose, nell'aria, nel suolo, nell'acqua, negli alimenti provenienti dalle vicinanze delle predette attività e nel sangue e nelle urine di lavoratori e di cittadini esposti”.
Già tra 1990 e il 1994 l'Organizzazione Mondiale della Sanità aveva rilevato nel brindisino un'altissima incidenza di mortalità dovuta a tumore polmonare, patologie del sistema linfoematopoietico e linfomi non Hodgkin. Soprattutto nella popolazione maschile, ossia quella maggiormente impiegata nelle lavorazioni industriali.
Un altro dubbio da sciogliere è infatti quello legato alle numerose morti di lavoratori del petrolchimico: “Chiediamo in relazione alle morti di lavoratori del petrolchimico una rianalisi della coorte lavorativa del petrolchimico di Brindisi, la cui mortalità è stata erroneamente comparata con quella della popolazione generale. La mortalità dei lavoratori del CVM doveva essere comparata con quella dei lavoratori non impegnati sugli impianti. In questo modo si potrà conoscere, come a Venezia, il numero di decessi in più attribuibili a quella lavorazione”.
La versione integrale di questo articolo è disponibile sul sito http://www.ilcambiamento.it/
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