A Roma, gli esperti discutono del trattamento di uno dei quattro ‘big killer’ dell’oncologia, il cancro al colon-retto. Tra screening sempre più accurati e farmaci biologici ecco tutte le novità, che in alcuni casi possono non fermarsi solo al trattamento, ma portare alla guarigione, anche nelle fasi più avanzate.
Fino a poco tempo fa non lasciava molte speranze ai pazienti cui veniva diagnosticato, spesso perché veniva riconosciuto troppo tardi, a stadio molto avanzato e dopo la comparsa di metastasi: oggi il tumore del colon-retto è ancora uno dei quattro tumori più letali, dopo quello del polmone, della mammella e della prostata, ma grazie agli avanzamenti della ricerca e all’introduzione delle terapie biologiche, oggi migliorano le prospettive in termini di sopravvivenza e qualità di vita, e talvolta è possibile guarire anche le forme più avanzate. Sull’evoluzione delle strategie di trattamento e sulle prospettive future, si è fatto il punto proprio la settimana scorsa a Roma in un evento dal titolo “Strategie terapeutiche per il tumore del colon-retto: scenari attuali e prospettive future”, che ha visto partecipare i massimi esperti italiani della neoplasia.
“Il tumore del colon-retto è uno dei più frequenti nel mondo occidentale, globalmente è la quarta causa di cancro in assoluto, ma diventa la seconda nel sesso maschile e la terza in quello femminile, considerati separatamente”, ha commentato Carlo Barone, Professore di Oncologia Medica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. “I nuovi casi nel mondo sono circa 1 milione l’anno e più di 250.000 solo in Europa. In Italia, gli ultimi dati del 2005 indicano un’incidenza di circa 40.000 casi ogni anno. Può insorgere in qualsiasi fascia d’età, con esclusione di quelle più giovani; l’incidenza è dai 40 anni in su, con un picco massimo dopo i 65 anni”.
Lo screening
Se diagnosticataprecocemente, è quasi sempre possibile asportare la massa maligna; tuttavia, spesso i sintomi iniziali possono essere confusi con quelli di altre patologie e al momento della diagnosi il tumore può essersi già diffuso in altre parti del corpo. “Il cancro del colon è una patologia in cui frequentemente la diagnosi è tardiva: si stima che il ritardo diagnostico medio sia intorno a sei mesi. I sintomi più comuni di questa neoplasia non sono specifici se considerati separatamente e vanno quindi interpretati nell’ambito generale del quadro clinico del paziente”, ha aggiunto Barone. Quando questo accade, il trattamento della malattia è più difficile e la prognosi peggiora notevolmente, anche se grandi passi in avanti sono stati fatti con uno screening più accurato:“Considerando che la sopravvivenza globale a 5 anni è di circa il 60%, mentre per i pazienti con tumori metastatici è inferiore al 5%, è evidente quanto la tardività della diagnosi sia un elemento cruciale nella prognosi e quanto sia importante effettuare uno screening: per i soggetti a rischio generico una maggiore attenzione si deve avere dopo i 50 anni, nella fascia a rischio intermedio gli esami si cominciano ad effettuare 5-10 anni prima dell’età in cui è stata effettuata la diagnosi di cancro del colon nel familiare di primo grado affetto; infine, coloro che presentano un rischio elevato, ovvero quel 5-10% di casi di origine genetica, deve iniziare a sottoporsi allo screening molto precocemente, anche prima dei 15 anni”, ha concluso.
I farmaci biologici
Ma non solo lo screening migliora le prospettive di trattamento e cura. Se in epoca “pre-biologica”, per coloro che ricevevano una diagnosi con la malattia in stadio avanzato, la sopravvivenza era inferiore all’anno, con l’avvento dei farmaci biologici, come bevacizumab, integrati alla chemioterapia, i pazienti hanno visto un allungamento progressivo del loro tempo di vita. “Le attuali strategie terapeutiche si basano sull’integrazione di farmaci chemioterapici con i nuovi farmaci biologici ed in alcuni casi con la chirurgia o altri trattamenti locali”, ha spiegato Alfredo Falcone, Professore associato di Oncologia Medica presso il Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina dell’Università di Pisa. “Tra i farmaci biologici ricordo il bevacizumab, un anticorpo anti-VEGF, che lega un fattore di crescita per i vasi sanguigni e in questo modo “affama” il tumore, rallentandone la progressione e rendendolo più sensibile alla chemioterapia. Altri tipi di anticorpi vengono utilizzati in pazienti con tumori con caratteristiche bio-molecolari particolari, relative al gene KRAS che non deve essere mutato, e che vengono utilizzati sempre generalmente in combinazione con la chemioterapia, sia inizialmente in casi selezionati, sia dopo fallimento di altri trattamenti”.
La guarigione
Grazie all’individuazione di una sequenza ottimale nella somministrazione dei farmaci e alla chirurgia, infatti, in alcuni casi può essere raggiunto il traguardo della guarigione. “Anche in pazienti che si presentano inizialmente con metastasi non operabili, siamo in grado oggi con trattamenti intensivi di indurre una regressione della malattia, in modo da rendere possibile un intervento chirurgico successivo”, ha continuato Falcone. “La cosiddetta “terapia di conversione”, che in alcuni casi può portare alla guarigione o comunque a sopravvivenze prolungate”.
Una migliorata qualità della vita
“Negli altri casi, anche quando la guarigione non è purtroppo un obiettivo perseguibile, siamo però in grado di indurre una regressione o stabilizzazione della malattia ritardandone l’evoluzione, e quindi riuscendo a far convivere il paziente con la malattia più a lungo e spesso anche con una buona qualità di vita”, ha spiegato ancora Falcone. Infatti, importante obiettivo ora raggiungibile è la possibilità di convivere nel tempo con la neoplasia senza peggiorare la qualità di vita del paziente.
“Circa il 25-30% dei pazienti presentano metastasi al momento della diagnosi, e persiste una porzione di pazienti che, pur avendo diagnosticato il tumore in fasi precoci, peggiorano in un arco di tempo che va dai 6 mesi ai due anni”, ha spiegato Alberto Sobrero, Responsabile della Divisione di Oncologia Medica dell’Ospedale San Martino di Genova. “Ma oggi abbiamo studiato una sequenza ottimale nella somministrazione dei farmaci, che può aiutarci anche in questi casi: consiste in un intervento chemioterapico di prima linea in combinazione con un farmaco biologico e un intervento con un farmaco chemioterapico diverso in seconda linea, combinato con lo stesso farmaco biologico. Quando la chemioterapia fallisce, deve essere cambiata, mentre il farmaco biologico viene mantenuto perché continua a rallentare la crescita del tumore con un ulteriore beneficio di sopravvivenza”, ha continuato.
“La disponibilità di questi nuovi farmaci – ha concluso - che si dimostrano efficaci, pur non essendo in grado di eradicare completamente il tumore, permette all’oncologo di dare un beneficio al paziente, non solo allungandogli la vita, ma anche migliorandola in termini di qualità. Ad esempio, un paziente che ha dolore e che non respira correttamente, grazie al trattamento con il farmaco biologico può stare significativamente meglio. Infatti, al contrario della chemioterapia, il farmaco biologico ha una tossicità bassissima e non peggiora la qualità di vita del paziente”. Le cosiddette terapie mirate costituiscono infatti un approccio relativamente nuovo alla cura del cancro inibendo la crescita e la diffusione del cancro tramite la modulazione di specifici processi molecolari e cellulari che partecipano allo sviluppo e alla progressione della patologia: poiché sono mirate ai processi specifici del cancro, le terapie biologiche possono essere potenzialmente più efficaci di altre terapie e meno tossiche per le cellule sane, non cancerose. Per ora non sono destinate a sostituire chemioterapia e radioterapia, ma come spiegato dagli esperti, possono aprire prospettive di trattamento e forse cura, che prima non erano pensabili.
Fonte quotidianosanita.it
Immagine fondazioneserono.org
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